L’economia
produce dei segni, che sono segni politici, i quali permettono di far
funzionare le strutture, produce dei meccanismi e delle
giustificazioni di potere […] un marco tedesco solido, un tasso di
crescita soddisfacente, un potere d’acquisto in espansione, una
bilancia dei pagamenti favorevole, nella Germania contemporanea sono
certamente gli effetti di un buon governo ma sono, in misura ancora
maggiore, il modo in cui si manifesta e si rinforza incessantemente
il consenso fondatore di uno stato che la storia, la disfatta o la
decisione dei vincitori, avevano appena messo fuori legge. La storia
aveva detto no allo stato tedesco, ma d’ora in poi sarà l’economia
a consentirgli di affermarsi.
[M.
Foucault]
Il
punto di partenza per
l’organizzazione
di una
politica
economica
dipende dalla teorie, elaborate in seno all’economia politica, che
si prendono in considerazione: il fatto che di «economie» o
meglio modelli di politica economica, ce
ne siano tanti
e che la scelta di organizzare un contesto distributivo a seconda
dell’uno
piuttosto che dell’altro
sia una scelta arbitraria, quindi politica, a Foucault è molto
chiaro.
Ce lo fa presente riportando le tesi sposate dal ministro delle
finanze tedesche appena dopo il periodo dell’unificazione tedesca a
cavallo della metà del XIX sec., Friedrich List:
List
e i suoi successori hanno posto come principio il fatto che
l’economia liberista, lungi dall’essere la formula generale
applicabile ad ogni politica economica, non poteva essere altro, e di
fatto non era altro, che uno strumento tattico, o una strategia, in
mano a determinati paesi per ottenere una posizione economicamente
egemonica e politicamente imperialista […] per dirla in termini
chiari e semplici il liberismo, secondo List, non rappresenta
la forma generale che ogni politica economica dovrebbe adottare. Il
liberismo non è altro che la politica inglese, la politica del
dominio inglese e, in generale, la politica peculiare a una nazione
marittima.
List
riconduce
la teoria naturale della distribuzione dell’inglese
Smith, nato a Kirkcaldy nel Regno Unito, ad una strumentale
celebrazione
della liberalizzazione del commercio internazionale
nel
momento in cui l’impero britannico, dopo aver costruito le sue
fortune sul libero commercio, si preparava a politiche
protezioniste.
Tuttavia
né Smith, né tantomeno il movimento dei fisiocrati francesi
possedevano le implicazioni teoriche per comprendere che la
disciplina dell’economia politica sarebbe diventata un magazzino di
modelli
di politica economica, visto che essi stavano ancora cercando,
semplicemente, le «leggi inscritte nella natura delle cose».
Non
è un caso se proprio
in Germania il liberalismo
classico cerca la sua
nuova legittimazione intellettuale: tra
gli anni Venti e Trenta
del ‘900 si articola il movimento filosofico, insieme politico
economico e sociologico, dell’ordoliberalismo tedesco, i
cui teorici saranno i più
lucidi interpreti del rifiuto
della «metafisica naturalista», caratteristica del liberismo
classico superata anche
grazie al convegno Walter Lippmann..
La
Germania del secondo Reich
(1879-1919) iniziò
nel periodo di cancelleria di Otto Von
Bismarck, negli
anni Ottanta
dell’800, ad
abbandonare
la dottrina liberista che aveva caratterizzato il periodo dello
Zollverein,
a favore di
un’intensa stagione di riforme in direzione sociale. Lo
scopo era di dare
alla classe lavoratrice sempre più strumenti per
difendersi dall’anarchia con la quale la
libera concorrenza gestiva, non
gestendolo, il
mercato: «leggi sul lavoro dei bambini, limitazione degli orari di
lavoro, diritto di sciopero e di associazione, indennizzo degli
incidenti, pensioni operaie».
Questa politica economica,
con
la sua particolare tendenza all’interventismo
e all’assistenzialismo di Stato,
era in linea con le soluzioni
economiche pragmatiche
proposte da List già
dagli anni Quaranta
dell’800.
Alla fine del XIX secolo
l’intervento pubblico
nell’economia e la tutela
della classe lavoratrice sono stati adottati come mezzi di politica
economica per reagire alle
crisi di produttività e consenso in
cui stagnava il Reich.
Dopo un primo momento di
generale aumento di
ricchezza dovuto al balzo di
produttività media, reso possibile dalla specializzazione del
lavoro che l’espansione
di vari settori industriali aveva apportato,
in Germania (come nel resto
dei paesi industrializzati d’Europa)
fenomeni come l’accentramento
dei capitali e la polarizzazione dei redditi
fanno emergere
la necessità di restituire dignità materiale ad una classe
lavoratrice sempre più consapevole dei
propri interessi e portatrice
di disintegrazione
sociale:
«occorreva, in generale, che il proletariato, visto come minaccia
per l’unità statale e l’unità nazionale, venisse effettivamente
reintegrato all’interno di un consenso politico e sociale. È
questa, in estrema sintesi,
l’idea del socialismo di stato bismarckiano.»
Secondo
la ricostruzione di Foucault la Germania non si libererà mai di
quest’impianto interventista dello stato inaugurato dal socialismo
di stato bismarckiano, passando
da un’economia
protezionista
durante la prima guerra mondiale voluta
dal ministro della difesa
Rathenau, a una politica
pianificata
e interventista
in senso
keynesiano nel primo
dopoguerra. I
governi si sono lasciati dunque ispirare da tutte quelle teorie
economiche contro le quali sia i fisiocrati, sia il liberismo
classico di Smith, sia il marginalismo, dirigevano la propria
analisi. Economia protetta,
socialismo di stato, pianificazione e interventi di tipo keynesiano,
sono i quattro modelli con i quali la Germania organizza la propria
economia dall’unificazione all’avvento del nazismo, il quale
«alla fine, stabilisce una
stretta coalescenza tra questi elementi diversi.» La
politica economica nazista
«consisteva
nell’organizzazione di un sistema economico in cui l’economia
protetta, l’economia assistenziale, l’economia pianificata e
l’economia keynesiana formavano un tutto, solidamente coerente […]
una pianificazione che aveva un duplice obiettivo: da un lato
garantire l’autarchia della Germania, dall’altro un’efficiente
politica d’assistenza».
Per
presentare
il
pensiero
ordoliberale
che
si affermò proprio dopo
aver definito il proprio “campo di avversità” nel nazismo,
è necessario ricordarsi
le premesse concettuali dalle quali partiva la rifondazione
intellettuale liberale e liberista, espresse nel convegno Walter
Lippmann
descritto nei post precedenti. Secondo Jean Werner Muller, storico
e filosofo politico tedesco, anche Wilhlelm Ropke e Alexandre Rustow, teorici
tedeschi presenti
al convegno del 1938 ed
il cui contributo sociologico fu determinante per la legittimazione
della filosofia politica ordoliberale, «sostenevano
che il vecchio liberalismo era stato
in errore credendo nella supremazia del mercato».
L’economia
di
mercato infatti
non è mai irrelata dalla dimensione giuridica della società, dalle
istituzioni politiche e sociali con
le quali si trova a convivere.
Per
Rustow «gli stati devono regolamentare rigidamente il mercato e, in
particolare, spezzare i monopoli e garantire – o creare, dove
necessario – la competizione economica […] i
governi,
inoltre,
si
devono impegnare in una sorta di
pedagogia
popolare per inculcare nelle masse le virtù di un libero ordinamento
economico».
Nel
1947 Ludwig Erhard, ministro
dell’economia tedesca durante il periodo del “miracolo tedesco”
(dal 1949 al 1963, anno in cui diventa cancelliere)
guida la SonderstelleGeld und Kredit, una
commissione scientifica che, come richiesto dalle amministrazioni
britannica e americana, aveva il compito di ridefinire la politica
economica della Germania occidentale uscita
sconfitta dalla guerra,
ma
che finirà per influenzare nella sua interezza il processo
costituente della
repubblica federale.
Walter Eucken, professore di economia a Friburgo, principale
consigliere scientifico della commissione, fonda nel 1936 la rivista
“Ordo”,
attorno alla quale si forma una corrente di pensiero economico e
sociale
che sarà denominata «scuola di Friburgo»; e
Muller-Armack, storico dell’economia anche lui professore a
Friburgo e
presente nella commissione,
sarà uno dei protagonisti dei
Trattatidi Roma (il
primo tassello della costruzione comunitaria europea nel
1957),
nonché segretario di stato della Germania federale con Erhard al
ministero
dell’economia.
Il presidente della ricostruzione post-bellica Adenauer (a destra), con Ludwig Ehrard |
Alla
scuola di Friburgo, che
dal punto di vista della dottrina economica
sposa le tesi dei marginalisti e dei monetaristi,
interessa mettere al vertice della
piramide politica l’obiettivo
di instaurare un’ordine sociale che si faccia guidare dal
meccanismo dei prezzi liberi,
quindi
dalle contingenze suggerite
dal sistema della domanda e dell’offerta, il
che ci riporta alle tesi di
Quesnay
del
secolo XVII.
In quest’approccio, di per sé, non vi sarebbe nessun elemento
particolarmente “rifondativo”:
eppure
l’accento stressante posto sull’Ordo («l’ordine,
costituzionale e procedurale, inteso come fondamento della società e
dell’economia di mercato»),
ci fa comprendere che l’obiettivo di Eucken
e della scuola di Friburgo non è soltanto quello
di
tornare ad un modello di
mercato liberista
guidato dall’oscillazione dei prezzi, ma
quello
di mettere
in discussione la legittimità dello stato e il
suo primato sull’economia: «bisogna liberare l’economia dai
vincoli statali»; «bisogna evitare tanto l’anarchia quanto lo
stato termite»; «solo
uno stato capace di stabilire al contempo la libertà
e
la responsabilità
dei
cittadini può legittimamente parlare a nome del popolo»,
sono
tutte citazioni di Ehrard.
La
libera
concorrenza,
sostiene
Muller-Armack,
è l’attrice protagonista del mercato istituzionale, essa è
«l’unico sistema» capace di «lasciare tutte le possibilità ai
progetti spontanei degli individui» e che riesce a «conciliare i
milioni di progetti spontanei e liberi con i desideri dei
consumatori».
Questa
posizione
nei confronti della concorrenza e nei confronti dei piani razionali
degli individui
la
si deve
all’impostazione marginalista dell’analisi economica degli
ordoliberali.
Nell’ordoliberalismo
le
istituzioni che fondano, proteggono e perpetuano il mercato, non si
identificano più nello scambio, entità che in sé presuppone
un’equità, un qualche principio di equivalenza valoriale, ma nella
CONCORRENZA, che, se vuol essere base di un progresso sociale,
include necessariamente diseguaglianze. Proprio per questa sua
tendenza all’accettazione dell’iniquo la concorrenza, per
esistere senza essere minacciata,
non può essere lasciata al di fuori della legge. Coscrivere
costituzionalmente le
procedure della
libera concorrenza è l’atto inaugurale della nuova politica
liberale
e liberista.
Non una politica «ordinatrice» quindi, bensì una politica
«regolatrice», fatta di azioni «conformi» o «non conformi»,
all’ordine di mercato:
le
azioni conformi possono dipendere dal «quadro» e danno in questo
senso corpo ad una politica ordinatrice; possono però anche
dipendere dal «processo» economico, e in questo caso rispondono
allora ad una politica «regolatrice». Secondo Eucken, il «quadro»
istituzionale è un prodotto della storia umana, sicché lo stato può
continuare a modellarlo attraverso una politica di ordine attiva; il
«processo» economico, invece, dipende dall’azione individuale,
per esempio dall’iniziativa privata sul mercato, e dev’essere
strettamente ed esclusivamente governato dalle regole della
concorrenza economica di mercato.
Gli
ordoliberali non contestano
la
necessità per lo stato di intervenire nell’economia ma sostengono
che il solo
ruolo dell’intervento pubblico
sia quello di garantire e
promuovere l’esistenza
di uno spazio nel quale si esprima il libero esercizio della libertà
economica degli individui.
Esercitare
liberamente la propria libertà economica comporterà
l’adesione a questo quadro (il
quadro istituzionale, «prodotto della storia umana e modellabile da
una politica di ordine attiva»),
quindi
il
consenso a ogni decisione che potrà essere presa allo scopo di
assicurare la libertà economica o di garantire ciò che la renderà
possibile. In altri termini l’istituzione della libertà economica
dovrà, o in ogni caso potrà funzionare, come una sorta di sifone o
innesco per la formazione di una sovranità politica […] L’economia
produce legittimità per lo stato. In altri termini, l’economia è
creatrice di diritto pubblico.
Esercitare
la propria libertà economica vuol dire scegliere di fare impresa
e come,
scegliere se accettare il salario che si desidera o quello di cui si
necessita, consumare in una direzione invece che in un’altra
eccetera.
Esercitando
questa libertà gli individui aderiscono al modello liberale.
Nell’ordoliberalismo l’adesione degli individui al sistema
«produce», secondo Foucault, «come surplus, oltre alla
legittimazione giuridica (degli
interventi),
il consenso
permanente, ed è la crescita economica, e
la produzione di benessere derivata da questa crescita che
determinerà un circuito che va dall’istituzione
economica all’adesione globale della popolazione al suo regime».
Resta, dunque, soltanto da
comprendere quali costruzioni teoriche procedano al «regolamento»
di una libera concorrenza. Analizzando la costituzione federale e
lalegge del 1957 che istituisce la BundesBank, Foucault
estrapola alcuni principi politici ed economici della concezione
ordoliberale di governo.
Le
decisioni
dell’attività
governativa
saranno «conformi» al «processo» quando la legge sarà in grado
di tutelare:
il principio di continuità
di
una
politica economica, il principio dei mercati aperti (di
stampo smithiano),
il principio della proprietà privata e della liberalizzazione dei
mezzi di produzione,
il principio dei contratti e quello della responsabilità degli
agenti economici (derivato
dalla teoria del valore marginalista),
ossia libertà di movimento territoriale per merci, corpi e capitali;
il principio di stabilità monetaria, attraverso
flessibilizzazione
dei salari e
stabilità
dei prezzi, garantita da una banca centrale indipendente dalle
richieste dei ministeri
(derivato,
quest’ultimo principio, dalla critica monetarista
alle
politiche keyneisane di
cui accenneremo nel prossimo paragrafo).
Secondo
Sergio Cesaratto l’ordoliberismo,
se pur viene inizialmente perorato dalla
scuola di Friburgo come
mero strumento di difesa e diffusione delle regole di mercato, è
stato sfruttato dallo Stato tedesco per organizzare le risorse
economiche e politiche della nazione in direzione mercantilista,
favorendo le esportazioni e l’accumulo di capitale, e in generale
l’attuale egemonia economica tedesca sui partner europei. Anche
Cesaratto, come Foucault, riprende la critica che List muove ad Adam
Smith
sulla
strumentale decantazione del libero commercio, aggiungendo però che
con l’ordoliberismo tedesco, è la Germania a
farsi
protagonista di un’altra, altrettanto strumentale, celebrazione:
«Come
l’Inghilterra ieri, la Germania oggi perora l’ordoliberismo ai
partner ma a esportare le proprie capacità tecniche e politiche non
ci pensa proprio».
La
politica
mercantilista la conosciamo,
prezzi e salari devono essere i più bassi possibili per poter
allocare all’estero
le eccedenze di produzione. L’ordoliberismo, nell’economia reale
dal dopo guerra in poi, ha avuto in Germania proprio il ruolo
strategico di assecondare gli obiettivi mercantilisti: negli anni
Cinquanta
e Sessanta
la moderazione salariale e la stabilità dei prezzi nazionali,
perseguite mentre le economie dei
paesi con cui la Germania stringeva relazioni commerciali
adottavano misure keynesiane (che furono
poi considerate
la causa degli alti tassi d’inflazione registrati durante
la crisi dei primi anni Settanta),
fecero guadagnare all’industria tedesca la competitività che porto
la Germania ad essere, dopo la metà degli anni Settanta,
il primo paese esportatore d’Europa. Questa
strategia, esplicita Cesaratto, era ben definita nella mente degli
ordoliberali; già nel 1951 Wilhelm
Vocke,
presidente dell’antenata della BundesBank, la Bank deutscher
Lander, afferma:
noi
siamo rimasti
coerentemente
al di sotto del
tasso
d’inflazione
degli altri paesi. Questa è la nostra chance, decisiva sia per la
nostra valuta che per le nostre esportazioni. È vitale per noi
accrescere le esportazioni e questo dipende a sua volta dal
mantenimento di un livello dei prezzi e dei salari relativamente
basso […] come ho già detto tenere il livello dei prezzi al di
sotto di quello degli altri paesi è il punto focale del nostro
lavoro alla banca centrale.
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