L'anima aperta

6. La repubblica federale tedesca e l'ordoliberalismo: ovvero come l'istituzione economica prese il sopravvento sullo Stato

L’economia produce dei segni, che sono segni politici, i quali permettono di far funzionare le strutture, produce dei meccanismi e delle giustificazioni di potere […] un marco tedesco solido, un tasso di crescita soddisfacente, un potere d’acquisto in espansione, una bilancia dei pagamenti favorevole, nella Germania contemporanea sono certamente gli effetti di un buon governo ma sono, in misura ancora maggiore, il modo in cui si manifesta e si rinforza incessantemente il consenso fondatore di uno stato che la storia, la disfatta o la decisione dei vincitori, avevano appena messo fuori legge. La storia aveva detto no allo stato tedesco, ma d’ora in poi sarà l’economia a consentirgli di affermarsi.

[M. Foucault]

Il punto di partenza per l’organizzazione di una politica economica dipende dalla teorie, elaborate in seno all’economia politica, che si prendono in considerazione: il fatto che di «economie» o meglio modelli di politica economica, ce ne siano tanti e che la scelta di organizzare un contesto distributivo a seconda dell’uno piuttosto che dell’altro sia una scelta arbitraria, quindi politica, a Foucault è molto chiaro. Ce lo fa presente riportando le tesi sposate dal ministro delle finanze tedesche appena dopo il periodo dell’unificazione tedesca a cavallo della metà del XIX sec., Friedrich List:

List e i suoi successori hanno posto come principio il fatto che l’economia liberista, lungi dall’essere la formula generale applicabile ad ogni politica economica, non poteva essere altro, e di fatto non era altro, che uno strumento tattico, o una strategia, in mano a determinati paesi per ottenere una posizione economicamente egemonica e politicamente imperialista […] per dirla in termini chiari e semplici il liberismo, secondo List, non rappresenta la forma generale che ogni politica economica dovrebbe adottare. Il liberismo non è altro che la politica inglese, la politica del dominio inglese e, in generale, la politica peculiare a una nazione marittima.

List riconduce la teoria naturale della distribuzione dell’inglese Smith, nato a Kirkcaldy nel Regno Unito, ad una strumentale celebrazione della liberalizzazione del commercio internazionale nel momento in cui l’impero britannico, dopo aver costruito le sue fortune sul libero commercio, si preparava a politiche protezioniste. Tuttavia né Smith, né tantomeno il movimento dei fisiocrati francesi possedevano le implicazioni teoriche per comprendere che la disciplina dell’economia politica sarebbe diventata un magazzino di modelli di politica economica, visto che essi stavano ancora cercando, semplicemente, le «leggi inscritte nella natura delle cose».
Non è un caso se proprio in Germania il liberalismo classico cerca la sua nuova legittimazione intellettuale: tra gli anni Venti e Trenta del ‘900 si articola il movimento filosofico, insieme politico economico e sociologico, dell’ordoliberalismo tedesco, i cui teorici saranno i più lucidi interpreti del rifiuto della «metafisica naturalista», caratteristica del liberismo classico superata anche grazie al convegno Walter Lippmann..
La Germania del secondo Reich (1879-1919) iniziò nel periodo di cancelleria di Otto Von Bismarck, negli anni Ottanta dell’800, ad abbandonare la dottrina liberista che aveva caratterizzato il periodo dello Zollverein, a favore di un’intensa stagione di riforme in direzione sociale. Lo scopo era di dare alla classe lavoratrice sempre più strumenti per difendersi dall’anarchia con la quale la libera concorrenza gestiva, non gestendolo, il mercato: «leggi sul lavoro dei bambini, limitazione degli orari di lavoro, diritto di sciopero e di associazione, indennizzo degli incidenti, pensioni operaie». Questa politica economica, con la sua particolare tendenza all’interventismo e all’assistenzialismo di Stato, era in linea con le soluzioni economiche pragmatiche proposte da List già dagli anni Quaranta dell’800. Alla fine del XIX secolo l’intervento pubblico nell’economia e la tutela della classe lavoratrice sono stati adottati come mezzi di politica economica per reagire alle crisi di produttività e consenso in cui stagnava il Reich. Dopo un primo momento di generale aumento di ricchezza dovuto al balzo di produttività media, reso possibile dalla specializzazione del lavoro che l’espansione di vari settori industriali aveva apportato, in Germania (come nel resto dei paesi industrializzati d’Europa) fenomeni come l’accentramento dei capitali e la polarizzazione dei redditi fanno emergere la necessità di restituire dignità materiale ad una classe lavoratrice sempre più consapevole dei propri interessi e portatrice di disintegrazione sociale: «occorreva, in generale, che il proletariato, visto come minaccia per l’unità statale e l’unità nazionale, venisse effettivamente reintegrato all’interno di un consenso politico e sociale. È questa, in estrema sintesi, l’idea del socialismo di stato bismarckiano.»
Secondo la ricostruzione di Foucault la Germania non si libererà mai di quest’impianto interventista dello stato inaugurato dal socialismo di stato bismarckiano, passando da un’economia protezionista durante la prima guerra mondiale voluta dal ministro della difesa Rathenau, a una politica pianificata e interventista in senso keynesiano nel primo dopoguerra. I governi si sono lasciati dunque ispirare da tutte quelle teorie economiche contro le quali sia i fisiocrati, sia il liberismo classico di Smith, sia il marginalismo, dirigevano la propria analisi. Economia protetta, socialismo di stato, pianificazione e interventi di tipo keynesiano, sono i quattro modelli con i quali la Germania organizza la propria economia dall’unificazione all’avvento del nazismo, il quale «alla fine, stabilisce una stretta coalescenza tra questi elementi diversi.» La politica economica nazista «consisteva nell’organizzazione di un sistema economico in cui l’economia protetta, l’economia assistenziale, l’economia pianificata e l’economia keynesiana formavano un tutto, solidamente coerente […] una pianificazione che aveva un duplice obiettivo: da un lato garantire l’autarchia della Germania, dall’altro un’efficiente politica d’assistenza».

Per presentare il pensiero ordoliberale che si affermò proprio dopo aver definito il proprio “campo di avversità” nel nazismo, è necessario ricordarsi le premesse concettuali dalle quali partiva la rifondazione intellettuale liberale e liberista, espresse nel convegno Walter Lippmann descritto nei post precedenti. Secondo Jean Werner Muller, storico e filosofo politico tedesco, anche Wilhlelm Ropke e Alexandre Rustow, teorici tedeschi presenti al convegno del 1938 ed il cui contributo sociologico fu determinante per la legittimazione della filosofia politica ordoliberale, «sostenevano che il vecchio liberalismo era stato in errore credendo nella supremazia del mercato». L’economia di mercato infatti non è mai irrelata dalla dimensione giuridica della società, dalle istituzioni politiche e sociali con le quali si trova a convivere. Per Rustow «gli stati devono regolamentare rigidamente il mercato e, in particolare, spezzare i monopoli e garantire – o creare, dove necessario – la competizione economica […] i governi, inoltre, si devono impegnare in una sorta di pedagogia popolare per inculcare nelle masse le virtù di un libero ordinamento economico».
Nel 1947 Ludwig Erhard, ministro dell’economia tedesca durante il periodo del “miracolo tedesco” (dal 1949 al 1963, anno in cui diventa cancelliere) guida la SonderstelleGeld und Kredit, una commissione scientifica che, come richiesto dalle amministrazioni britannica e americana, aveva il compito di ridefinire la politica economica della Germania occidentale uscita sconfitta dalla guerra, ma che finirà per influenzare nella sua interezza il processo costituente della repubblica federale. Walter Eucken, professore di economia a Friburgo, principale consigliere scientifico della commissione, fonda nel 1936 la rivista “Ordo”, attorno alla quale si forma una corrente di pensiero economico e sociale che sarà denominata «scuola di Friburgo»; e Muller-Armack, storico dell’economia anche lui professore a Friburgo e presente nella commissione, sarà uno dei protagonisti dei Trattatidi Roma (il primo tassello della costruzione comunitaria europea nel 1957), nonché segretario di stato della Germania federale con Erhard al ministero dell’economia.





Il presidente della ricostruzione post-bellica Adenauer (a destra), con Ludwig Ehrard


Alla scuola di Friburgo, che dal punto di vista della dottrina economica sposa le tesi dei marginalisti e dei monetaristi, interessa mettere al vertice della piramide politica l’obiettivo di instaurare un’ordine sociale che si faccia guidare dal meccanismo dei prezzi liberi, quindi dalle contingenze suggerite dal sistema della domanda e dell’offerta, il che ci riporta alle tesi di Quesnay del secolo XVII. In quest’approccio, di per sé, non vi sarebbe nessun elemento particolarmente “rifondativo”: eppure l’accento stressante posto sull’Ordo («l’ordine, costituzionale e procedurale, inteso come fondamento della società e dell’economia di mercato»), ci fa comprendere che l’obiettivo di Eucken e della scuola di Friburgo non è soltanto quello di tornare ad un modello di mercato liberista guidato dall’oscillazione dei prezzi, ma quello di mettere in discussione la legittimità dello stato e il suo primato sull’economia: «bisogna liberare l’economia dai vincoli statali»; «bisogna evitare tanto l’anarchia quanto lo stato termite»; «solo uno stato capace di stabilire al contempo la libertà e la responsabilità dei cittadini può legittimamente parlare a nome del popolo», sono tutte citazioni di Ehrard. La libera concorrenza, sostiene Muller-Armack, è l’attrice protagonista del mercato istituzionale, essa è «l’unico sistema» capace di «lasciare tutte le possibilità ai progetti spontanei degli individui» e che riesce a «conciliare i milioni di progetti spontanei e liberi con i desideri dei consumatori». Questa posizione nei confronti della concorrenza e nei confronti dei piani razionali degli individui la si deve all’impostazione marginalista dell’analisi economica degli ordoliberali.

Nell’ordoliberalismo le istituzioni che fondano, proteggono e perpetuano il mercato, non si identificano più nello scambio, entità che in sé presuppone un’equità, un qualche principio di equivalenza valoriale, ma nella CONCORRENZA, che, se vuol essere base di un progresso sociale, include necessariamente diseguaglianze. Proprio per questa sua tendenza all’accettazione dell’iniquo la concorrenza, per esistere senza essere minacciata, non può essere lasciata al di fuori della legge. Coscrivere costituzionalmente le procedure della libera concorrenza è l’atto inaugurale della nuova politica liberale e liberista. Non una politica «ordinatrice» quindi, bensì una politica «regolatrice», fatta di azioni «conformi» o «non conformi», all’ordine di mercato:

le azioni conformi possono dipendere dal «quadro» e danno in questo senso corpo ad una politica ordinatrice; possono però anche dipendere dal «processo» economico, e in questo caso rispondono allora ad una politica «regolatrice». Secondo Eucken, il «quadro» istituzionale è un prodotto della storia umana, sicché lo stato può continuare a modellarlo attraverso una politica di ordine attiva; il «processo» economico, invece, dipende dall’azione individuale, per esempio dall’iniziativa privata sul mercato, e dev’essere strettamente ed esclusivamente governato dalle regole della concorrenza economica di mercato.

Gli ordoliberali non contestano la necessità per lo stato di intervenire nell’economia ma sostengono che il solo ruolo dell’intervento pubblico sia quello di garantire e promuovere l’esistenza di uno spazio nel quale si esprima il libero esercizio della libertà economica degli individui.

Esercitare liberamente la propria libertà economica comporterà l’adesione a questo quadro (il quadro istituzionale, «prodotto della storia umana e modellabile da una politica di ordine attiva»), quindi il consenso a ogni decisione che potrà essere presa allo scopo di assicurare la libertà economica o di garantire ciò che la renderà possibile. In altri termini l’istituzione della libertà economica dovrà, o in ogni caso potrà funzionare, come una sorta di sifone o innesco per la formazione di una sovranità politica […] L’economia produce legittimità per lo stato. In altri termini, l’economia è creatrice di diritto pubblico.

Esercitare la propria libertà economica vuol dire scegliere di fare impresa e come, scegliere se accettare il salario che si desidera o quello di cui si necessita, consumare in una direzione invece che in un’altra eccetera. Esercitando questa libertà gli individui aderiscono al modello liberale. Nell’ordoliberalismo l’adesione degli individui al sistema «produce», secondo Foucault, «come surplus, oltre alla legittimazione giuridica (degli interventi), il consenso permanente, ed è la crescita economica, e la produzione di benessere derivata da questa crescita che determinerà un circuito che va dall’istituzione economica all’adesione globale della popolazione al suo regime».

Resta, dunque, soltanto da comprendere quali costruzioni teoriche procedano al «regolamento» di una libera concorrenza. Analizzando la costituzione federale e lalegge del 1957 che istituisce la BundesBank, Foucault estrapola alcuni principi politici ed economici della concezione ordoliberale di governo. Le decisioni dell’attività governativa saranno «conformi» al «processo» quando la legge sarà in grado di tutelare: il principio di continuità di una politica economica, il principio dei mercati aperti (di stampo smithiano), il principio della proprietà privata e della liberalizzazione dei mezzi di produzione, il principio dei contratti e quello della responsabilità degli agenti economici (derivato dalla teoria del valore marginalista), ossia libertà di movimento territoriale per merci, corpi e capitali; il principio di stabilità monetaria, attraverso flessibilizzazione dei salari e stabilità dei prezzi, garantita da una banca centrale indipendente dalle richieste dei ministeri (derivato, quest’ultimo principio, dalla critica monetarista alle politiche keyneisane di cui accenneremo nel prossimo paragrafo).
Secondo Sergio Cesaratto l’ordoliberismo, se pur viene inizialmente perorato dalla scuola di Friburgo come mero strumento di difesa e diffusione delle regole di mercato, è stato sfruttato dallo Stato tedesco per organizzare le risorse economiche e politiche della nazione in direzione mercantilista, favorendo le esportazioni e l’accumulo di capitale, e in generale l’attuale egemonia economica tedesca sui partner europei. Anche Cesaratto, come Foucault, riprende la critica che List muove ad Adam Smith sulla strumentale decantazione del libero commercio, aggiungendo però che con l’ordoliberismo tedesco, è la Germania a farsi protagonista di un’altra, altrettanto strumentale, celebrazione: «Come l’Inghilterra ieri, la Germania oggi perora l’ordoliberismo ai partner ma a esportare le proprie capacità tecniche e politiche non ci pensa proprio».

La politica mercantilista la conosciamo, prezzi e salari devono essere i più bassi possibili per poter allocare all’estero le eccedenze di produzione. L’ordoliberismo, nell’economia reale dal dopo guerra in poi, ha avuto in Germania proprio il ruolo strategico di assecondare gli obiettivi mercantilisti: negli anni Cinquanta e Sessanta la moderazione salariale e la stabilità dei prezzi nazionali, perseguite mentre le economie dei paesi con cui la Germania stringeva relazioni commerciali adottavano misure keynesiane (che furono poi considerate la causa degli alti tassi d’inflazione registrati durante la crisi dei primi anni Settanta), fecero guadagnare all’industria tedesca la competitività che porto la Germania ad essere, dopo la metà degli anni Settanta, il primo paese esportatore d’Europa. Questa strategia, esplicita Cesaratto, era ben definita nella mente degli ordoliberali; già nel 1951 Wilhelm Vocke, presidente dell’antenata della BundesBank, la Bank deutscher Lander, afferma:

noi siamo rimasti coerentemente al di sotto del tasso d’inflazione degli altri paesi. Questa è la nostra chance, decisiva sia per la nostra valuta che per le nostre esportazioni. È vitale per noi accrescere le esportazioni e questo dipende a sua volta dal mantenimento di un livello dei prezzi e dei salari relativamente basso […] come ho già detto tenere il livello dei prezzi al di sotto di quello degli altri paesi è il punto focale del nostro lavoro alla banca centrale.

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