Se per i
classici il valore di una
merce è il risultato dei
rapporti di forza vigenti tra gli attori della produzione, e
in particolare il risultato storico contingente dell’evoluzione di
tali rapporti di forza,
nell
neoliberismo il valore
è dato dalla scarsità delle merci, e
dal desiderio che la
scarsità o l’abbondanza sanno suscitare nell’attore economico
razionalmente teso alla propria soddisfazione.
Questo sposta l’attenzione della politica economica dalla
preservazione di un equilibrio nei rapporti di forza vigenti nella
produzione, alla tutela del consumatore
e della sua autonomia, e
quindi alla perfetta concorrenzialità del mercato.
Dal
26 al 30 agosto 1938 a Parigi si
tiene il convegno Walter Lippmann, organizzato
per conto dell’Istituto Internazionale di Cooperazione
Intellettuale, antenato
dell’Unesco. Il convegno, dal quale emergeranno varie
interpretazioni di nuovo liberalismo, riunisce i maggiori pensatori
liberali dell’epoca (per fare qualche esempio Von Hayek, Louis Rougier e Raymond Aron, Jaques Rueff, Wilhelm Ropke) con l’esplicito scopo di
contrastare l’interventismo e il collettivismo dilaganti in Europa
nelle «opposte forme di fascismo e comunismo, ma anche quelle
tendenze intellettuali e le correnti politiche riformistiche che, nei
paesi occidentali, minacciano di condurvi, prima tra tutte il
keynesismo».
L’originalità del neoliberalismo sta nel superare senza troppe
remore affettive, la
«metafisica naturalistica»
ereditata
dai classici. Anche
secondo Foucault, infatti, vista
da una prospettiva di più ampio raggio, il
successo della dottrina liberale, avallando l’esordio
della
scienza
economica e
della pratica liberista, si poggia onestamente su soggiacenze naturaliste:
Se
si guardano le cose più da lontano, risalendo alla loro origine, si
vede chiaramente che a caratterizzare la nuova arte di governo
(l’arte
di governo liberale ossia
«economica», «naturale» o «scientifica»)
è molto più il naturalismo che il liberismo. La libertà di cui
parlavano i fisiocrati o Adam Smith, coincide assai più con la
spontaneità, con la meccanica interna e intrinseca dei processi
economici, che non con una libertà giuridica riconosciuta in quanto
tale agli individui nel
mercato.
Louis
Rougier, filosofo francese moderatore del convegno, riconosce che
essere
liberali vuol dire «essere
essenzialmente “progressisti”, perché si afferma la necessità
di un adeguamento continuo dell’ordine legale alle scoperte
scientifiche, ai progressi organizzativi e tecnici dell’economia,
ai cambiamenti strutturali della società, alle esigenze, infine,
della coscienza contemporanea»;
vuol dire quindi offrire un quadro giuridico di disposizioni legali
in cui è tutelato
sia lo
spazio
di
concorrenza, sia l’autonomia del consumatore, unica capace di
regolare in maniera non autoritaria i
rapporti di forza tra i produttori in concorrenza sul mercato. Il
liberalismo è causa della sua stessa crisi in virtù del semplice
fatto di aver confuso delle regole di funzionamento di un sistema con delle leggi naturali, spontanee e intangibili. L’economia, e
in particolare l’economia politica,
non è mai irrelata dalla dimensione giuridica della società, dalle
istituzioni politiche e sociali. La
nuova agenda del politico neoliberale è quindi costantemente fondata
sull’adattamento, conscio
del fatto che se
da un lato la
società del capitale per come si è sviluppata ha aperto un’epoca
di rivoluzione permanente (nel senso di un continuo evolversi dei
mezzi di produzione e della produttività media), dall’altro lato,
gli uomini, la
cui razionalità non riesce del
tutto ad afferrare le implicazioni di questa rivoluzione permanente,
non
si piegano spontaneamente all’ordine
mutevole del mercato, «essendo nati in una altro mondo». Bisognerà
dunque trovare dispositivi in grado di adattare il mercato alla
comunità, e la comunità al mercato, ossia
«trovare un nuovo sistema di vita per tutta l’umanità» (come scrive Walter Lippmann in La giusta società, 1938; come intuibile dal titolo, l’opera indagava le condizioni nelle quali un modello di vita liberale riuscisse ad essere equo),
il
che giustifica una pratica politica focalizzata sulla vita
individuale e sociale complessiva, come ribadiranno con grande
successo gli ordoliberali tedeschi.
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