L'anima aperta

7. Verso l'Europa ordoliberale e neoliberista: la fine della "repressione finanziaria"

Nell’europa occidentale del secondo dopoguerra, escludendo la Germania, si diffusero politiche economiche ispirate dalla letteratura di John Maynard Keynes. Queste politiche, come ben avevano compreso i filosofi politici e gli economisti presenti al convegno Walter Lippmann, esprimono sin dagli anni venti la più seria avversità alle idee neoliberiste, differendo da esse nella concezione del ruolo degli interventi pubblici.



Con un efficace atto di opportunismo propagandistico gli ordoliberali, quando analizzarono le democrazie keynesiane, le analizzarono come una forma blanda di socialismo, a causa, secondo loro, delle misure redistributive e pianificatrici teorizzate da Keynes. La teoria economica di Keynes ha come obiettivo principale la piena occupazione, quindi che ogni soggetto diventi un soggetto economico con un ruolo nel sistema produttivo. Keynes giustifica l’intervento dello stato per tutelare la crescita nei periodi ad alto tasso di disoccupazione attraverso incentivi alla domanda interna (sostanzialmente aumentando la spesa pubblica con sussidi ai redditi, incentivi al consumo e all’impresa); tuttavia l’economista britannico non trovava alcuna ragione a sostegno della proprietà statale dei mezzi di produzione. Il nuovo liberalismo alla Keynes, era guidato dall’aspirazione della sottomissione della politica a fini morali collettivi, postulando quindi che lo Stato, attraverso la logica della piena occupazione, si assicurasse che «ognuno abbia sufficienti mezzi a disposizione per realizzare il suo progetto».


Secondo Cesaratto, la necessità di proporre con urgenza alternative alle politiche keynesiane negli anni Settanta sorge per rispondere all’arresto della crescita comune alle economie industriali occidentali. Dopo trent’anni di stabilità indirizzati al perseguimento della piena occupazione secondo logiche keynesiane e di quota salari e quota profitti in crescita, una serie di fattori blocca nuovamente la crescita economica dei paesi industrializzati: l’aumento del prezzo dell’energia, conseguenza dell’instabilità medio-orientale e dello shock petrolifero del 1973, la crescente concorrenza tra potenze capitalistiche internazionali ossia l’emergere di economie in via di sviluppo (Cesaratto si riferisce nello specifico alla crescita delle così dette “tigri asiatiche”, paesi entrati dalla seconda metà degli anni Settanta in poi nella “top ten” dei paesi esportatori), quindi il rallentamento della produttività dovuto al fatto che fette di mercato venivano progressivamente occupate dalla concorrenza internazionale, e un alto tasso d’inflazione in tutta Europa (un incremento generalizzato dei prezzi). Il tutto unito alle proteste di una classe lavoratrice che negli anni Settanta aveva raggiunto una tale consapevolezza di sé da spingersi in richieste sindacali sempre più radicali e tuttavia assecondate dai governi. 
Il caso italiano è esemplare: il ciclo di lotte che si aprì nel 1969 e proseguì, ininterrottamente, fino al 1973, fu senza eguali in Europa per intensità e durata».

Descriviamo attraverso le parole di Alberto Bagnai, macroeconomista post-keynesiano ordinario all’università di Pescara, la struttura scheletrica della politica economica keynesiana, modello egemone fino al periodo della deregolamentazione finanziaria (una progressiva liberazione del movimento dei capitali, lasciati liberi da imposte e tassazioni, per andare alla ricerca della migliore remunerazione al di là dei confini nazionali, come volevano i fisiocrati e Adam Smith), ossia il momento dell’ingresso nelle istituzioni dei princìpi neoliberisti. La deregolamentazione sarà guidata, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, dalle più influenti economie occidentali: quella americana persegue la deregolamentazione a partire dall’amministrazione di Ronald Reagan, e quella britannica da Margaret Tatcher. Si conclude in questo periodo un trentennio di «repressione finanziaria», ispirato da Keynes:

Un’economia è finanziariamente repressa quando i suoi tassi d’interesse sono tenuti sotto controllo dal governo (anziché essere determinati dai mercati), e quando si crea un mercato interno che faciliti il finanziamento del deficit pubblico. In un’economia repressa: 
- La banca centrale non è “indipendente” dal “tesoro” ma è chiamata a finanziarne parte del fabbisogno.
- Altre istituzioni finanziarie (banche, fondi pensione) sono sotto il diretto, o indiretto, controllo dello Stato.
- Il costo del denaro, (ossia il tasso d’interesse di un prestito chiesto alla banca) quindi non è fissato ad arbitrio del mercato, ma è gestito, indirizzato, dallo Stato, che determina degli obiettivi, o fissa dei tetti a particolari tassi di riferimento.
- I movimenti internazionali di capitali sono sottoposti a controlli, perché altrimenti i capitali fuggirebbero in cerca di miglior remunerazione altrove.
- Anche gli afflussi di capitale sono controllati.
- Questo vale soprattutto in ambito finanziario dove le istituzioni finanziarie nazionali vengono controllate dallo stato che impone loro vincoli di portafoglio: l’obbligo ad acquistare una certa quota di titoli di debito pubblico.
- Valgono anche altre forme di controllo “diretto” o “quantitativo”, come i massimali sul credito, ossia il divieto di erogare credito oltre certe soglie prefissate, il che implica di converso, che i privati non possono indebitarsi troppo, ciò vale a scongiurare l’inflazione “creditizia” (cioè l’aumento dei prezzi causato dall’impennarsi di domanda di beni finanziata a credito). [A. BAGNAI, Il tramonto dell’Euro, Imprimatur, Reggio Emilia, 2012]

Questo è, in buona sostanza, il mondo del keynesismo, il mondo della repressione finanziaria. Prima di dare il via ad un processo di integrazione europeo ispirato dalla filosofia ordoliberale e da politiche economiche neoliberiste, i governi avrebbero dovuto quindi disfarsi dell’architettura keynesiana di gestione e controllo economico. Questo è il percorso che seguiranno Inghilterra, Francia e Italia alla fine degli anni Settanta, di cui proveremo a presentare gli aspetti salienti nel prossimo post.

Oltre al progetto degli allineamenti dei cambi nominali, ossia dei valori delle varie valute europee, la liberalizzazione dei movimenti interni ed internazionali dei capitali è stato un preciso obiettivo dell’agenda dell’Unione europea, dai Trattati di Roma (1957) in poi. Riportiamo alcune informazioni contenute nel resoconto sull’attuale condizionedella libera circolazione dei capitali stilato da Drazen Rakic, europarlamentare, per il parlamento europeo nel novembre 2017:

- Le prime misure comunitarie erano di portata ridotta. Il trattato di Roma prevedeva che le restrizioni fossero eliminate limitandosi a quanto necessario ai fini del funzionamento del mercato comune. La «prima direttiva sui movimenti di capitali» del 1960 [Consiglio della Comunità Economica Europea: Prima direttiva per l'applicazione dell'articolo 67 del Trattato, GU 43, del 12.7.1960, pag. 921], modificata nel 1962, ha posto fine alle restrizioni su certi tipi di movimenti di capitale pubblici e privati, quali gli acquisti immobiliari, i crediti a breve o medio termine per operazioni commerciali nonché gli acquisti di valori mobiliari negoziati in borsa.
- Nel 1985 e 1986 sono state apportate modifiche alla «prima direttiva sui movimenti di capitali», che hanno esteso ulteriormente la liberalizzazione incondizionata in ambiti quali i crediti a lungo termine per operazioni commerciali e gli acquisti di valori mobiliari non negoziati in borsa. 
- Nel contesto del completamento del mercato unico (entro il 1993), dell'istituzione dell'UME (l’unione monetaria europea, l’adozione dell’euro che si avrà tuttavia nel biennio 1997-1999) e della prevista introduzione dell'euro, come primo passo è stata pienamente liberalizzata la circolazione dei capitali mediante una direttiva del Consiglio del 1988 [Direttiva 88/361/CEE del Consiglio del 24 giugno 1988 per l'attuazione dell'articolo 67 del Trattato, GU 178, del 8.7.1988, pag. 5], che ha abolito tutte le rimanenti restrizioni relative ai movimenti di capitali tra residenti degli Stati membri a decorrere dal 1° luglio 1990.



I firmatari del trattato di Maastricht


Coerentemente con la filosofia politica ordoliberale e con la sua concezione del mercato, dello Stato e dell’economia, si arriva a condensare la base giuridica della libertà economica per merci persone e capitali negli articoli dal 63 al 66 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, il quale, assieme al Trattato di Maastricht (1992)e al Trattato di Lisbona (2007) costituiscono secondo Dardot e Laval il fondamento ordoliberale della costruzione europea. Si tenta di dare un carattere costituzionale a quelli che, formalmente, sono trattati internazionali ratificati dagli Stati membri:



il trattato di Maastricht (TUE), entrato in vigore nel 1994, ha introdotto la libera circolazione dei capitali tra le libertà sancite dai trattati. Attualmente l'articolo 63 TFUE vieta tutte le restrizioni ai movimenti di capitali e ai pagamenti tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi. La Corte di giustizia dell'Unione europea ha il compito di interpretare le disposizioni relative alla libera circolazione dei capitali e in tale settore esiste un'ampia giurisprudenza. In caso di ingiustificata restrizione della libera circolazione dei capitali da parte degli Stati membri trova applicazione la normale procedura di infrazione.

Incluso nei trattati vi è anche il principio neoliberista dell’indipendenza della banca centrale da altri organi istituzionali, principio estrapolato dalla teoria monetarista e dalla critica monetarista a Keynes. In Germania, come visto nel post precedente, quest’indipendenza è garantita dalla costituzione, in Italia il “divorzio” tra ministero del tesoro e Banca d’Italia si consuma nel 1981, in Francia, con la stesura di un nuovo statuto della banca centrale, nel 1993. Con la nascita dell’euro e dell’eurozona (nel biennio 1997-1999) nasce anche la Banca centrale europea, indipendente per costituzione:

Il sistema europeo di banche centrali è diretto dagli organi decisionali della banca centrale europea. L’obiettivo principale del sistema è la stabilità dei prezzi (come l’obiettivo che Vocke prefissava per la Bank deutscher Lander). La banca centrale europea è un’istituzione. Essa ha personalità giuridica. Ha il diritto esclusivo di autorizzare l’emissione dell’euro. Essa è indipendente nell’esercizio dei suoi poteri e nella gestione delle sue finanze. Le istituzioni, gli organi e organismi dell’Unione e i governi degli Stati membri rispettano tale indipendenza. [Parte I, Titolo III, Art. 20, comma 2 dello Statuto della Banca Centrale Europea.]


Le teorie dei monetaristi interpretano gli alti livelli d’inflazione registrati durante gli anni Settanta in seno alle democrazie keynesiane dandone la responsabilità a banche centrali irresponsabili che perseguivano manovre monetarie espansive (immissione nel sistema di una certa quantità di ricchezza, sotto forma di interventismo keynesiano).

 Secondo i monetaristi il fatto che la gestione della politica monetaria sia arbitrarietà dell’esecutivo, porta i governi ad un uso strumentale delle politiche monetarie: secondo Milton Friedman, economista di Chicago caposcuola della teoria monetarista, se un governo interventista decide ad esempio di incrementare l’occupazione (per guadagnare consensi, per vincere le elezioni, mostrando un boom economico pur senza una chiara e lungimirante programmazione economica) spostando il tasso di disoccupazione dal suo livello naturale (tasso al quale chi è disoccupato lo è per sua volontà, nel senso che il mercato gli offre il salario necessario per sopravvivere ma non il salario che desidererebbe per vivere), lo farà ordinando alla banca centrale di abbassare i tassi d’interessi, ossia agevolando i consumi privati. L’accresciuta domanda, questa è la narrazione di Friedman, farà produrre di più alle imprese, che assumeranno più lavoratori, lavoratori la cui disponibilità a lavorare scarseggia poiché l’economia, come detto, è al suo tasso naturale di disoccupazione. Chi è chiamato a lavorare per rispondere alla crescita di domanda globale vuole salari più alti di quelli correnti, e le imprese, stimolate da questa domanda, soddisfano le richieste aumentando i salari nominali; nessuno gli vieterà, poi, di alzare anche i prezzi. Quindi, sempre seguendo Friedman, se aumentano i salari nominali, ossia la quantità di moneta percepita dal lavoratore, ma aumentano anche i prezzi, ossia il costo della vita (l’inflazione), ne conseguirà che il potere d’acquisto, il così detto salario reale, di quei disoccupati volontari che sono andati a lavorare, rimane invariato, rimane lo stesso che era in precedenza dell’abbassamento dei tassi d’interesse. Friedman chiama questo fenomeno “illusione monetaria”. Intanto il governo può convincere l’elettorato del boom economico in corso, e quindi dell’efficienza e dell’efficacia del proprio operato. Ecco desunto il fondamento monetarista: «togliere la politica monetaria dalle mani dei governi per assegnarla a banche centrali indipendenti che abbiano il solo scopo di stabilizzare il tasso di inflazione ad un livello basso e costante».
Milton Friedman


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