Nell’europa occidentale del secondo dopoguerra, escludendo la Germania, si diffusero politiche economiche ispirate dalla letteratura di John Maynard Keynes. Queste politiche, come ben avevano compreso i filosofi politici e gli economisti presenti al convegno Walter Lippmann, esprimono sin dagli anni venti la più seria avversità alle idee neoliberiste, differendo da esse nella concezione del ruolo degli interventi pubblici.
Con
un efficace atto di opportunismo propagandistico gli
ordoliberali, quando analizzarono le
democrazie keynesiane, le analizzarono come una
forma blanda di socialismo, a causa, secondo loro,
delle
misure redistributive e
pianificatrici teorizzate da
Keynes.
La
teoria economica di Keynes ha
come obiettivo principale la piena occupazione, quindi che ogni
soggetto diventi un soggetto economico con un ruolo nel sistema
produttivo. Keynes giustifica
l’intervento dello
stato per tutelare
la crescita nei periodi ad alto tasso di disoccupazione
attraverso
incentivi alla domanda interna (sostanzialmente aumentando la spesa
pubblica con
sussidi ai redditi, incentivi al consumo e all’impresa);
tuttavia
l’economista britannico non trovava
alcuna
ragione a sostegno della proprietà statale dei mezzi di produzione.
Il
nuovo liberalismo alla Keynes, era
guidato dall’aspirazione della sottomissione della politica a fini
morali collettivi, postulando quindi che lo Stato, attraverso la
logica della piena occupazione, si assicurasse
che «ognuno abbia sufficienti
mezzi a disposizione per realizzare
il suo progetto».
Secondo
Cesaratto, la necessità di proporre con urgenza alternative alle
politiche keynesiane negli anni Settanta
sorge per rispondere all’arresto
della crescita
comune alle economie industriali occidentali. Dopo
trent’anni di stabilità
indirizzati
al perseguimento della
piena occupazione secondo
logiche keynesiane
e
di quota salari e quota profitti in crescita, una serie di fattori
blocca nuovamente la crescita economica dei paesi industrializzati:
l’aumento del prezzo dell’energia,
conseguenza
dell’instabilità medio-orientale e
dello
shock petrolifero
del
1973,
la crescente concorrenza tra potenze capitalistiche internazionali
ossia
l’emergere
di economie in via di sviluppo (Cesaratto
si
riferisce nello specifico alla
crescita delle così dette
“tigri asiatiche”, paesi
entrati dalla
seconda metà degli anni Settanta
in poi nella “top
ten” dei paesi esportatori),
quindi il rallentamento della produttività dovuto
al fatto che fette di mercato venivano progressivamente occupate
dalla concorrenza
internazionale,
e un
alto
tasso d’inflazione in tutta Europa (un incremento generalizzato dei
prezzi). Il
tutto unito alle
proteste
di una classe lavoratrice
che negli
anni Settanta
aveva
raggiunto una tale consapevolezza di sé da spingersi in richieste
sindacali sempre più radicali e
tuttavia assecondate dai governi.
Il caso italiano è esemplare: il ciclo di lotte che
si aprì nel 1969 e proseguì, ininterrottamente, fino al 1973, fu
senza eguali in Europa per intensità e durata».
Descriviamo
attraverso le parole di Alberto Bagnai, macroeconomista post-keynesiano ordinario all’università
di Pescara, la
struttura
scheletrica
della politica economica keynesiana, modello egemone
fino
al periodo
della
deregolamentazione finanziaria (una progressiva liberazione del
movimento dei capitali, lasciati liberi da imposte e tassazioni,
per andare alla ricerca della migliore remunerazione al di là dei
confini nazionali, come
volevano i fisiocrati e Adam Smith),
ossia
il momento
dell’ingresso
nelle istituzioni dei princìpi neoliberisti.
La
deregolamentazione sarà guidata,
a cavallo tra gli anni Settanta
e Ottanta, dalle
più influenti economie occidentali: quella americana
persegue
la deregolamentazione a partire dall’amministrazione
di Ronald Reagan, e quella
britannica
da
Margaret Tatcher. Si
conclude in
questo periodo
un trentennio di «repressione finanziaria», ispirato
da Keynes:
Un’economia
è finanziariamente repressa quando i suoi tassi d’interesse sono
tenuti sotto controllo dal governo (anziché essere determinati dai
mercati), e quando si crea un mercato interno che faciliti il
finanziamento del deficit pubblico.
In un’economia repressa:
-
La banca centrale non è “indipendente” dal “tesoro” ma è
chiamata a finanziarne parte del fabbisogno.
-
Altre istituzioni finanziarie (banche, fondi pensione) sono sotto il
diretto, o indiretto, controllo dello Stato.
-
Il costo del denaro, (ossia il tasso d’interesse di un
prestito chiesto alla banca) quindi non è fissato ad
arbitrio del mercato, ma è gestito, indirizzato, dallo Stato, che
determina degli obiettivi, o fissa dei tetti a particolari tassi di
riferimento.
-
I movimenti internazionali di capitali sono sottoposti a controlli,
perché altrimenti i capitali fuggirebbero in cerca di miglior
remunerazione altrove.
-
Anche gli afflussi di capitale sono controllati.
- Questo
vale soprattutto in ambito finanziario dove le istituzioni
finanziarie nazionali vengono controllate dallo stato che impone loro
vincoli di portafoglio: l’obbligo ad acquistare una certa
quota di titoli di debito pubblico.
-
Valgono anche altre forme di controllo “diretto” o
“quantitativo”, come i massimali sul credito, ossia il divieto di
erogare credito oltre certe soglie prefissate, il che implica di
converso, che i privati non possono indebitarsi troppo, ciò vale a
scongiurare l’inflazione “creditizia” (cioè l’aumento
dei prezzi causato dall’impennarsi di domanda
di beni finanziata a credito). [A. BAGNAI, Il tramonto dell’Euro, Imprimatur, Reggio Emilia, 2012]
Questo
è, in buona sostanza, il mondo del keynesismo, il mondo della
repressione finanziaria. Prima
di dare il via ad un processo di integrazione europeo ispirato dalla
filosofia ordoliberale e da politiche economiche neoliberiste, i
governi avrebbero dovuto quindi disfarsi dell’architettura
keynesiana di gestione e controllo
economico.
Questo
è il percorso che seguiranno Inghilterra, Francia e Italia alla
fine degli anni Settanta,
di
cui proveremo a presentare gli aspetti salienti nel prossimo
post.
Oltre
al progetto degli allineamenti dei cambi nominali, ossia dei valori
delle varie valute europee, la liberalizzazione dei movimenti interni
ed internazionali dei capitali è stato un preciso obiettivo
dell’agenda dell’Unione europea, dai
Trattati
di Roma (1957) in poi. Riportiamo
alcune informazioni contenute nel resoconto sull’attuale condizionedella libera circolazione dei capitali stilato da Drazen Rakic,
europarlamentare,
per il parlamento europeo nel novembre 2017:
- Le
prime misure comunitarie erano di portata ridotta. Il trattato di
Roma prevedeva che le restrizioni fossero eliminate limitandosi a
quanto necessario ai fini del funzionamento del mercato comune. La
«prima direttiva sui movimenti di capitali» del 1960 [Consiglio
della Comunità Economica Europea: Prima direttiva per l'applicazione
dell'articolo 67 del Trattato, GU 43, del 12.7.1960, pag. 921],
modificata nel 1962, ha posto fine alle restrizioni su certi tipi di
movimenti di capitale pubblici e privati, quali gli acquisti
immobiliari, i crediti a breve o medio termine per operazioni
commerciali nonché gli acquisti di valori mobiliari negoziati in
borsa.
-
Nel 1985 e 1986 sono state apportate modifiche alla «prima direttiva
sui movimenti di capitali», che hanno esteso ulteriormente la
liberalizzazione incondizionata in ambiti quali i crediti a lungo
termine per operazioni commerciali e gli acquisti di valori mobiliari
non negoziati in borsa.
-
Nel contesto del completamento del mercato unico (entro il 1993),
dell'istituzione dell'UME (l’unione monetaria europea,
l’adozione dell’euro che si avrà tuttavia nel biennio
1997-1999) e della prevista introduzione dell'euro, come primo
passo è stata pienamente liberalizzata la circolazione dei capitali
mediante una direttiva del Consiglio del 1988 [Direttiva 88/361/CEE
del Consiglio del 24 giugno 1988 per l'attuazione dell'articolo 67
del Trattato, GU 178, del 8.7.1988, pag. 5], che ha abolito
tutte le rimanenti restrizioni relative ai movimenti di capitali tra
residenti degli Stati membri a decorrere dal 1° luglio 1990.
I firmatari del trattato di Maastricht |
Coerentemente con la filosofia politica ordoliberale e con la sua concezione del mercato, dello Stato e dell’economia, si arriva a condensare la base giuridica della libertà economica per merci persone e capitali negli articoli dal 63 al 66 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, il quale, assieme al Trattato di Maastricht (1992), e al Trattato di Lisbona (2007) costituiscono secondo Dardot e Laval il fondamento ordoliberale della costruzione europea. Si tenta di dare un carattere costituzionale a quelli che, formalmente, sono trattati internazionali ratificati dagli Stati membri:
il
trattato di Maastricht (TUE), entrato in vigore nel 1994, ha
introdotto la libera circolazione dei capitali tra le libertà
sancite dai trattati. Attualmente l'articolo 63 TFUE vieta tutte le
restrizioni ai movimenti di capitali e ai pagamenti tra Stati membri,
nonché tra Stati membri e paesi terzi. La Corte di giustizia
dell'Unione europea ha il compito di interpretare le disposizioni
relative alla libera circolazione dei capitali e in tale settore
esiste un'ampia giurisprudenza. In caso di ingiustificata restrizione
della libera circolazione dei capitali da parte degli Stati membri
trova applicazione la normale procedura di infrazione.
Incluso
nei trattati
vi è anche il principio neoliberista dell’indipendenza della banca
centrale da altri organi istituzionali,
principio estrapolato dalla teoria monetarista e dalla critica monetarista a Keynes. In Germania, come visto nel post precedente, quest’indipendenza è
garantita dalla costituzione, in Italia il “divorzio” tra
ministero del tesoro e Banca d’Italia si consuma nel 1981,
in Francia, con la stesura di un nuovo statuto della banca centrale,
nel 1993. Con la nascita dell’euro e dell’eurozona (nel biennio
1997-1999) nasce anche la Banca centrale europea, indipendente per
costituzione:
Il
sistema europeo di banche centrali è diretto dagli organi
decisionali della banca centrale europea. L’obiettivo principale
del sistema è la stabilità dei prezzi (come l’obiettivo che
Vocke prefissava per la Bank deutscher Lander).
La banca centrale europea è un’istituzione. Essa ha personalità
giuridica. Ha il diritto esclusivo di autorizzare l’emissione
dell’euro. Essa è indipendente nell’esercizio dei suoi poteri e
nella gestione delle sue finanze. Le istituzioni, gli organi e
organismi dell’Unione e i governi degli Stati membri rispettano
tale indipendenza. [Parte I, Titolo III, Art. 20, comma 2 dello Statuto della Banca Centrale Europea.]
Le
teorie dei monetaristi interpretano gli alti livelli d’inflazione
registrati durante gli anni Settanta in seno alle democrazie
keynesiane dandone la responsabilità a banche centrali
irresponsabili che perseguivano manovre monetarie espansive
(immissione nel sistema di una certa quantità di ricchezza, sotto
forma di interventismo keynesiano).
Secondo i monetaristi il fatto
che la gestione della politica monetaria sia arbitrarietà
dell’esecutivo, porta i governi ad un uso strumentale delle
politiche monetarie: secondo Milton Friedman, economista di Chicago
caposcuola della teoria monetarista, se un governo interventista
decide ad esempio di incrementare l’occupazione (per guadagnare
consensi, per vincere le elezioni, mostrando un boom economico pur
senza una chiara e lungimirante programmazione economica) spostando
il tasso di disoccupazione dal suo livello naturale (tasso al quale
chi è disoccupato lo è per sua volontà, nel senso che il mercato
gli offre il salario necessario per sopravvivere ma non il salario
che desidererebbe per vivere), lo farà ordinando alla banca centrale
di abbassare i tassi d’interessi, ossia agevolando i consumi
privati. L’accresciuta domanda, questa è la narrazione di
Friedman, farà produrre di più alle imprese, che assumeranno più
lavoratori, lavoratori la cui disponibilità a lavorare scarseggia
poiché l’economia, come detto, è al suo tasso naturale di
disoccupazione. Chi è chiamato a lavorare per rispondere alla
crescita di domanda globale vuole salari più alti di quelli
correnti, e le imprese, stimolate da questa domanda, soddisfano le
richieste aumentando i salari nominali;
nessuno gli vieterà, poi, di alzare anche i prezzi. Quindi, sempre
seguendo Friedman, se aumentano i salari nominali, ossia la quantità
di moneta percepita dal lavoratore, ma aumentano anche i prezzi,
ossia il costo della vita (l’inflazione), ne conseguirà che il
potere d’acquisto, il così detto salario reale, di quei
disoccupati volontari che sono andati a lavorare, rimane invariato,
rimane lo stesso che era in precedenza dell’abbassamento dei tassi
d’interesse. Friedman chiama questo fenomeno “illusione monetaria”.
Intanto il governo può convincere l’elettorato del boom economico
in corso, e quindi dell’efficienza e dell’efficacia del proprio
operato. Ecco desunto il fondamento monetarista: «togliere la
politica monetaria dalle mani dei governi per assegnarla a banche
centrali indipendenti che abbiano il solo scopo di stabilizzare il
tasso di inflazione ad un livello basso e costante».
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